Per una prospettiva di movimento: il nostro punto di vista sulle giornate del 19O e del 31O verso l’assemblea del 9 e 10 novembre.

affittoVogliamo partire da noi, soggetti sociali in lotta contro quelle politiche neoliberiste che i governi dell’austerity e delle basse intese continuano a imporci sotto forma di sacrifici e di economie strutturate sul debito; costretti alla precarietà come condizione esistenziale, rispondiamo di non essere più disposti a delegare la sovranità sulle nostre vite.

Abbiamo deciso di riappropriarci di una parte di reddito, partendo dall’occupazione di uno stabile dismesso per recuperarlo e adibirlo a fini abitativi e sociali, in opposizione alla logica speculativa che devasta i nostri territori e ci sottrae il diritto ad una casa e a degli spazi di aggregazione.

Siamo voluti entrare far parte di quell’immaginario di cambiamento reale che il Movimento NoTav è riuscito ad animare e che quest’estate, insieme ai movimenti che rivendicano il diritto all’abitare, la difesa dei beni comuni, i diritti dei migranti e un reddito incondizionato d’esistenza, ha lanciato un appello per la costruzione di un processo indipendente che si configura come alternativa di conflitto al vuoto creato dalla crisi di una rappresentanza sempre più distante dai bisogni e dai desideri della società.

A questo processo abbiamo voluto accostare l’immagine della Vendetta Precaria, immagine che ha per noi il significato di messa in crisi di un principio di legalità sempre più dispositivo di esclusivo controllo sociale totalmente slegato da ogni parametro di democrazia, come ha dimostrato il Referendum sull’acqua pubblica svolto due anni fa e il cui esito è ancora disatteso.

La legge è infatti quel dispositivo che, sempre più in contrasto con la realtà sociale, nel momento in cui questa si adopera per resistere alla crisi attraverso la riappropriazione diretta di reddito, mette in campo misure repressive atte non alla risoluzione dei problemi reali ma all’intimidazione e alla sottomissione dei soggetti sociali; una legalità dunque ogni volta più distante dal concetto stesso di giustizia se chi decide di scendere in piazza per reclamare i propri diritti viene continuamente additato e condannato come criminale, affinchè desista dalla sua lotta e sia da monito per chiunque voglia intraprenderla.

Vano tentativo, il loro: noi continuiamo la lotta forti del desiderio di immaginare sempre nuove pratiche di rivendicazione che partano proprio da quei luoghi dove è la nostra vita ad essere messa a profitto. Dalle università, a fruizione sempre più elitaria e dove il sapere è reso strumento di indottrinamento, ai luoghi di lavoro, dove le voci di tutti coloro che, consumati dai ritmi e dalle condizioni lavorative, restano inascoltate e dove questi vengono privati del diritto allo sciopero, fino a quei territori usurpati da speculazioni e avvelenamenti ambientali. Tutti questi luoghi in cui ci si vede negato, prima di tutto, il futuro.

Ed è proprio questa la componente sociale che la manifestazione del 19 Ottobre è riuscita a portare nelle strade, con più di 70.000 corpi che hanno saputo mettersi in gioco rifiutando intelligentemente il tentativo mediatico di costruire su questa giornata un clima di allarme e di terrore “apocalittico”. Una giornata ricompositiva delle istanze sociali che ha voluto ridisegnare una città blindata da più di 4000 agenti delle Forze dell’Ordine, trasformandola nella prova di forza di un nuovo spazio di movimento: uno spazio di conflitto e di costituzione di nuove forme del comune, che ha saputo esprimersi nei primi momenti dell’accampata che per tre giorni ha significato l’assedio di Porta Pia. La piazza ha sicuramente dato un segnale politico importante: la continuità dei processi e la voglia di ribadire che dopo una giornata come quella non si torna a casa; dall’assemblea del giorno dopo è emersa tutta la ricchezza che si poteva esprimere, ma la potenza di questa ricomposizione ha perso poco a poco forza, appoggiandosi del tutto sulle spalle dei movimenti per il diritto all’abitare in una piazza che si è vista ridimensionata nei numeri ma non nei contenuti. Da questo dato emerge una necessità che è quella di consolidare l’allargamento alle altre componenti di movimento per un nuovo ambizioso processo sociale.

A pochi giorni da questo primo momento di mobilitazione dunque ci mettiamo già a verifica nei nostri territori. Ci eravamo preposti, infatti, l’idea del 19O come un passaggio di accumulazione a cui si avrebbe dovuto dare continuità, sia con l’organizzazione di momenti di conflitto che con il radicamento nei territori di questi stessi strumenti organizzativi, raccogliendo e dando un senso alla rabbia che, nella più totale frammentazione sociale, spesso si sfoga, nel suo piccolo, in modo alienante e fine a sè stesso, lontano dai luoghi dove si potrebbe praticare la reale rottura. A tal fine importante è riflettere internamente sull’immagine che vogliamo diffondere del movimento: un’immagine di organizzazione, di coerenza e di reale alternativa, per giungere lì, dove le lotte non sono così radicate ma dove la rabbia e il malcontento sociale si sedimentano.

Il 31O siamo tornati in strada ancora una volta e lo abbiamo fatto con rabbia, a viso scoperto e con estrema determinazione. A chi credeva che ci interessasse quello che accadeva dentro quei palazzi, ci dispiace dirgli e ribadirgli che, in realtà, ci interessava prima di tutto quello che accadeva fuori. Quel giorno infatti si è palesata dinanzi a noi (appena dietro la blindatura delle Forze dell’Ordine) l’utilità di tavoli di trattativa e incontri istituzionali che siano, incontri dai quali non si possono trarre speranze in quanto, ad oggi, le reali decisioni politiche sono dettate dalla Troika e dai processi neoliberisti in atto ed al politico resta il ruolo di mero esecutore non certo privo di colpa e responsabilità.

Quale tavolo di trattativa e quale mediazione potrebbero esserci, per esempio, in un luogo di “interesse strategico nazionale” militarizzato quale è la Valsusa? Lì la popolazione si è già espressa nella più totale intenzione di “non mediazione”, mentre il potere, cieco nei suoi interessi, continua imperterrito nelle sue decisioni. Quale soluzione? L’unica: che il conflitto cresca e si allarghi!

Da queste mobilitazioni deve partire dunque un processo costituente dei movimenti che punti in alto, un processo di alterità per l’alterità, che ragioni in termini di autonomia dallo Stato. Questo processo deve avvenire traendo esempio dalle lotte e dai movimenti degli anni passati, lotte che hanno riscontrato numeri altissimi ma che si sono trovate difronte ad un susseguirsi di sconfitte che ne hanno portato poi alla scomparsa. Siamo scesi in massa nelle piazze contro una guerra che poi è stata comunque portata avanti. Per anni abbiamo bloccato strade e città contro quelle riforme di scuola e università che stanno venendo portate avanti fino allo smantellamento totale del sapere e della ricerca. In ogni territorio abbiamo occupato i terreni e gli spazi che avrebbero voluto avvelenare con l’ennesimo mostro ambientale, fino ad iniziare a respirare il nauseabondo odore della sua costruzione.

Abbiamo visto la rabbia che il 14 dicembre ha diffidato lo Stato (e il governo) consegnata poco dopo nelle mani di Napolitano attraverso una miserabile lettera. Abbiamo visto il fervore della piazza del 15 ottobre scemare tra la frammentazione di movimento e il ben noto teatrino politico che hanno impedito la nascita di un nuovo anno di lotte.

In questo senso il 19O ha avuto un aspetto formidabile mostrando maggiori capacità e maturità nelle modalità di piazza, aspetti che non vedevamo accrescere da tempo e che hanno messo a tacere chi aveva tentato di screditare la giornata indicando come unica piazza di lotta reale quella del 12O al fianco di Rodotà e Landini o chi, in maniera più confusionaria, non faceva differenza tra le istanze e soprattutto delle prospettive delle due diverse piazze.

A sottolineare tali differenze va intrapresa una riflessione seria sulla credibilità che devono avere i movimenti quali unico strumento di costruzione di alternativa reale; le piazze e le azioni di rottura segnalano una volontà e dei tentativi, da parte non solo dell’ambito militante, di organizzarsi contro la crisi, ma non possiamo negare che questo sia un aspetto solo parziale della lotta che è necessario intraprendere. La riappropriazione di reddito indiretto attraverso le occupazioni a scopo abitativo, così come i comitati e le reti anti-sfratto, non sono sufficienti a neutralizzare i problemi che la crisi sta causando ad una fetta ormai sempre più ampia della popolazione; tra le mille narrazioni della quotidianeità si riscontra infatti il lavoro come uno delle principali problematiche della società. In questa fase sarebbe inopportuno e poco realista parlare di lavoro in termini di “bene comune”, come lavoro “buono” o “utile”.

La produzione è cambiata: sappiamo quanto siamo produttivi al di fuori dei posti di lavoro e quanto poco, alcune volte, siamo produttivi al loro interno.

Non è necessario essere “antilavoristi” per leggere come è strutturato oggi il mercato del lavoro e poter affermare, al di là di facili esempi sul lavoro come oggetto di morte (vedi l’Ilva di Taranto), che si tratta di un male comune. Questo è infatti il primo strumento di repressione e contenimento sociale (appena dopo la scolarizzazione, divenuta ad oggi anch’essa molto vicina a queste logiche) nonchè causa della frammentazione che porta l’individuo ad investire solo su se stesso come un pezzetto di capitale e a tentare invano di programmare la sua vita all’interno di un sistema che non soddisfa nessun’altro se non il sistema stessi e chi ne trae profitto.

Lo slogan “lavorare meno, lavorare tutti” è divenuto ormai anacronistico se non paradossale nel momento in cui non si domanda “quale lavoro” e “a vantaggio di chi si lavora”, tralasciando, dunque, una riflessione strategica su quanto possa interessare alle prospettive di movimento (cambiamento radicale dello stato attuale delle cose) questo ragionamento. Interessante per le nostre finalità diviene invece il discorso, già emerso, del reddito di esistenza incondizionato come elemento di rottura per il mercato lavorativo che metterebbe in crisi le dinamiche di ricatto e sfruttamento, oltre che giovare, dal nostro punto di vista, alla liberazione del tempo, strumento utile e fondamentale per poter immaginare, creare e vivere un altro mondo.

Il reddito resta per noi un terreno di aggregazione, di ricomposizione, di conflitto e di prospettiva entro il quale acquisirebbe senso la rivendicazione come reale alternativa, ma che ad oggi pone ancora diversi limiti; prima di tutto notiamo che non è un campo di immediata comprensione e “approvazione”, per quanto se ne sia discusso molto nell’ultimo periodo. L’etica costituzionalista, abbastanza antiquata, su cui sarebbe fondata questa Repubblica loda il lavoro e addita chi “non vuole lavorare” come fannullone o scanzafatiche, come se un lavoro svilente, poco interessante e a cui si è costretti per poter radunare pochi spiccioli possa davvero rivelarsi gratificante.

Se dunque il reddito può essere una delle prospettiva di movimento, dopo che di conflitto, si necessita di uno spazio intermedio tra la realtà odierna e la rivendicazione che ci proponiamo. Un ragionamento sullo strumento degli sportelli legali, anch’essi di utilità limitata, e sulla cosiddetta “vendetta precaria” lo rimandiamo ad un documento che uscirà a breve dallo Sportello Legale “Difenditi dal Lavoro”.

In conclusione, crediamo che le giornate del 9 e 10 novembre dovrebbero riportare al centro le questioni che abbiamo trattato: le modalità con le quali rendere i movimenti di lotta punti di riferimento e di partenza per la creazione di alternativa, l’utilità delle pratiche di lotta ad oggi utilizzate e come è possibile far crescere il livello di conflitto, non in termini di mera rappresentazione dello stesso, ma come utilità reale e capacità di blocco dei flussi.

Ricominciamo ad articolare infine un discorso sullo sciopero sociale come concetto slegato dallo sciopero sindacalista, dal semplice corteo o dalla giornata di conflitto fine a se stessa, ma come processo che prosegue e cresce quotidianamente creando un’alternativa reale all’esistente e che sceglie di tenere momenti di picco tra le più diverse pratiche di lotta che mirino al sabotaggio del sistema tutto.

 

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